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sabato 19 dicembre 2009

Copenhagen: e così la montagna partorì il topolino



Grandi aspettative per il summit di Copenhagen, in cui si sarebbero potute delineare finalmente le future strategie e gli impegni formali dei governi per combattere i cambiamenti climatici. Grandi aspettative infatti, ma fatti concreti assai pochi, tanto che alla fine, dopo una seduta ad oltranza protratta fino a notte fonda, si è arrivati al fatidico accordo: limitare di due gradi al massimo l'incremento di temperatura. Quindi, nessun impegno realmente vincolante (come si fa a raggiungere questo obiettivo ?), tutto spostato ad una verifica nel 2016, nessun trattato ma solo un accordo, appunto.

E' di fatto una mediazione al ribasso, l'intesa (senza valore vincolante) annunciata ieri sera dal presidente americano Obama e sottoscritta dal premier cinese, dal primo ministro indiano e dal presidente sudafricano, è stata silurata dall'opposizione del piccolo stato insulare di Tuvalu, nel pacifico (il primo paese che ha già avuto dei 'rifugiati climatici') e poi da una raffica di interventi contrari di paesi latinoamericani: Venezuela, Bolivia, Cuba, Nicaragua e Costarica.

Vi chiederete (forse) il perchè io non abbia parlato della conferenza di Copenaghen fin dalla sua apertura, il 7 dicembre scorso, il perché è presto detto: credo sia sostanzialmente inutile, anzi probabilmente dannosa.

Dannosa perchè, per come è stato concepito l'evento, sembra che il nocciolo della questione non siano tanto i cambiamenti climatici in se, ma gli accordi sul mercato delle emissioni di co2 e la spartizione degli aiuti  in denaro ai paesi emergenti. Tutti i capi di stato mondiali non si sarebbero mai riuniti ad un tavolo se non fosse per un motivo maledettamente serio (cioè economico), e questo motivo è solo in parte dovuto alla sensibilità riguardo ai rischi sui cambiamenti climatici (che per ora percepiscono solo gli esuli dall'isolotto Tuvalu).

La vera posta in gioco è ovviamente economica, sono li per capire come spartirsi la torta, o meglio, per evitare che chi deciderà come spartire la torta lasci ai paesi meno rappresentati solo le briciole. Ascoltate queste parole:

Mediaticamente vien detto che c’è il riscaldamento globale e allora si deve fare questo mercato sulle emissioni di CO2. Nel frattempo c’è un ambiente planetario – ambiente, non clima – che fa schifo e ne parla solo il Papa. Dobbiamo trovare l’unanimità internazionale sull’ambiente, che è già deteriorato.

Il deterioramento ha ormai colpito tutto il pianeta. Oceani compresi. I pesci sono imbottiti di metalli pesanti pure in Antartide. È necessario un approccio globale che affronti i tre poli del problema: energia, ambiente e clima.


Chi ha detto queste cose ?

Non ci crederete, ma è stato il climatologo Franco Prodi (si, è il fratello di Romano Prodi ex presidente del consiglio).

Forse tanta attenzione verso il clima, e tanta indifferenza verso ambiente ed energia, è perché hanno trovato il modo di cavarci quattrini grazie al mercato delle emissioni ? Quello che dice Franco Prodi non credo che vada sottovalutato, anche se sottostima la reale portata dei problemi che domani i cambiamenti climatici già oggi in atto potrebbero provocare.

Energia, ambiente, clima, sono assolutamente inscindibili e strettamente correlati, tirando un filo qualsiasi si scopre una matassa che imbriglia tutti e tre questi temi in modo inestricabile.

Politiche ambientali, politiche energetiche, riduzione dalla dipendenza da fonti fossili (incluso il nucleare che è una fonte fossile), riduzione quindi non solo delle emissioni ma anche dei consumi energetici e di risorse. Se non si affrontano realmente questi problemi, l'accordo di copenaghen rischia di rimanere solo una vuota dichiarazione di intenti, o al meglio una assicurazione che alcuni stati si porteranno a casa per cui, qualsiasi sia la decisione, non ne verranno penalizzati eccessivamente nelle loro economie locali.

Lo stesso concetto, da cui ho preso spunto per questo articolo, lo potete ricavare (ovviamente scritto molto meglio) dallo splendido post di Debora Billi uscito qualche tempo fa su Petrolio, blog che vi invito a seguire.

giovedì 5 novembre 2009

Sotterriamo e non bruciamo le biomasse in agricoltura

Federico Valerio, sul suo blog, ha avuto una grande idea. I contadini utilizzano oggi grandi quantità di combustibili fossili per il trattore, pesticidi e concimi a profusione, grandi quantità di acqua, per produrre grano e frumento il cui valore di mercato a malapena copre i costi di produzione. Naturale quindi che si parli spesso della possibilità di sovvenzionare (tramite certificati verdi) la combustione di biomasse direttamente da parte delle aziende agricole, per recuperare energia dagli scarti, spacciandola come soluzione per sostenere una agricoltura a bassa rendita destinata a scomparire.

Purtroppo questa pratica non è bene in accordo con il protocollo di kyoto e non sembra generalmente molto benefica dal punto di vista ambientale. Si bruciano infatti scarti in carbonio per immetterlo nell'atmosfera, recuperando qualche soldo per la vendita di energia elettrica e i certificati verdi. Analogamente, i terreni si impoveriscono, si inaridiscono, lavorarli diventa sempre più difficile per la perdita dello strato fertile, e i costi aumentano.

Ecco all'ra l'idea, anzichè sovvenzionare i contadini per bruciare le biomasse, li si potrebbe sovvenzionare per seppellire le biomasse nel proprio terreno, accedendo così ai crediti di carbonio che saranno istituiti anche in Europa, così come chiedono le conferenze sul clima, non ultima quella del prossima di Copenaghen.

Si fa quello che facevano i nostri nonni, ovvero il sovescio, che ha come beneficio la fissazione di gran parte del carbonio degli scarti all'interno del terreno (meno co2 in atmosfera), un terreno che assorbe più acqua, che si lavora con meno combustibile, più ricco di humus quindi con minori necessità di fertilizzanti.

Si sovvenzionerebbero i contadini per ridurre i loro costi globali anziché per aumentarli! La stessa cosa dovrebbe valere secondo me anche per le deiezioni agricole, incentivandone il riutilizzo in loco aumentandone così il valore di mercato. A quel punto incenerirle diventerebbe antieconomico e nessuno vorrà più farlo, con beneficio pure per il clima.

Trovate qui l'interessante articolo completo sul blog di Federico Valerio.