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giovedì 3 settembre 2009

Sale la protesta per l'iva non dovuta ad Hera

Secondo quanto riporta il giornale "la voce", sono già circa 300 i Cesenati che si sono informati presso le associazioni per richiedere il rimborso dell'IVA ingiustamente versata ad Hera per la tariffa di igiene urbana. Pare che questa violazione sia sussistita per almeno 10 anni, pertanto il rimborso dell'iva non dovuta per tutto questo periodo porterebbe ad una entrata extra non indifferente per i cittadini. Adoc a Cesena (associazione per la difesa dei consumatori) ha già raccolto le oltre 300 istanze di rimborso dei cittadini, fornendo moduli prestampati per la richiesta. La somma media da restituire pare ammonti a qualche centinaio di euro.

La sentenza numero 238/2009 della Corte Costituzionale è chiara: si può chiedere il rimborso dell'IVA che non risulta dovuta!

Spero non vada a finire come per la questione della tassa sui depuratori. La Corte costituzionale aveva deliberato ad ottobre 2008 che la tassa sulla depurazione non era dovuta se non esisteva l'impianto di depurazione, sono partite un sacco di richieste di rimborso da parte dei cittadini. Senonché qualche mese dopo è uscita una legge su tutt'altra materia in cui è stato inserito un articolo che consentiva ai gestori di non rimborsare nulla ai richiedenti in quanto bastava che fosse depositato il progetto di costruzione dell'impianto di depurazione perchè fosse esigibile la tassa. Una cosa da folli.

Il movimento consumatori FC ci informa che anche a San Piero in Bagno il circolo Salvador Allende aveva raccolto 250 richieste di rimborso spedite ad Hera e si son trovati beffati.

E' dura fare valere i diritti dei consumatori, se anche in presenza di sentenze esecutive si riesce comunque a trovare l'inghippo, passare la festa e "gabbare lo santo".

giovedì 27 agosto 2009

Il solito scaricabarile, chi paga per kyoto ?

A causa del mancato rispetto del protocollo di Kyoto, nel 2012 le famiglie rischieranno di pagare 40 euro a testa in più per le loro bollette. Il calcolo é delle associazioni dei consumatori, che accusano aziende e Governo. Sembra infatti in dirittura di arrivo la maxi multa di ben 555 milioni di euro che l'Europa ci ha appioppato per il mancato raggiungimento degli obiettivi minimi previsti dal protocollo di Kyoto. Tale multa, salirà a 840 milioni se non si raggiungerà il prossimo "checkpoint", previsto per il 2012. E ci va pure bene, perché secondo i calcoli del Kyoto Club il costo del ritardo dovrebbe già abbondantemente superare il miliardo di euro.

"Le responsabilità vanno ricercate in primis tra le imprese - dice Paolo Landi, segretario generale Adiconsum - e in secondo luogo nel non controllo da parte del governo. Il costo non può essere caricato sui consumatori: si tratta di circa 40 euro a famiglia, tra costi diretti e indiretti". Dello stesso avviso Adusbef e Federconsumatori. "Non si capisce perché - affermano Elio Lannutti (Adusbef) e Rosario Trefiletti (Federconsumatori) - debbano essere ancora una volta le famiglie in gravissima crisi, già oberate di bollette elettriche gonfiate da gravami fiscali superiori al 22,2 % a dover pagare i ritardi del protocollo di Kyoto, con un aggravio sulla bolletta da 30 a 40 euro per ogni nucleo familiare."

Quindi, la colpa non è solo del governo ma delle imprese, che non possono però certo ricaricare sui consumatori già super oberati queste spese ulteriori... Quindi ? Chi li paga questi soldi ?

Rispondiamo prima alla domanda: Gli accordi di kyoto da chi sono stati stipulati, dal governo o direttamente dalle imprese ? Lo stato dovrà pur assumersene le responsabilità ? O si limiterà a scaricare le colpe al governo precedente ? Intanto le multe sono già state comminate e all’Italia non resta che pagarle, o meglio saremo noi a pagarle, indipendentemente da chi se le accollerà sulla carta.

Le associazioni dei consumatori hanno già fatti i conti: a ogni italiano spetterà una quota pari a circa 40 euro. Ma per il Ministro Prestigiacomo la nostra politica energetica è e resta molto efficiente, in realtà siamo un paese immobile. Questa infatti è la sintesi di Legambiente:

L’Italia, che deve recuperare il proprio sforamento rispetto agli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto (-6,5% rispetto al 1990, mentre siamo a +9%), continua a rappresentare una anomalia Europea. E’ l’unico grande Paese che non ha una politica per ridurre le emissioni di CO2, e neanche con la ratifica del Pacchetto europeo, il cosiddetto 20-20-20 avvenuta lo scorso Dicembre, ha ancora messo in campo alcun provvedimento. Del resto il Governo Berlusconi - denuncia Legambiente - aveva scommesso sul fallimento di Kyoto contando sulla promessa di Putin che non lo avrebbe mai ratificato. Ma anche dopo la firma di Putin, e la conseguente entrata in vigore del Protocollo, e perfino dopo l’introduzione da parte dell’Unione Europea di precisi obiettivi di riduzione per i settori energetico e industriale, ancora nessun provvedimento è stato preso per ridurre le emissioni.

Scarica il PDF del Protocollo di Kyoto originale ratificato nel 1996 (attenzione, alto tasso di gergo legalese)

Fonte: AffariItaliani

lunedì 2 marzo 2009

La crisi mondiale del credito



In tanti ne parlano, in pochi riescono a spiegarla (o spiegarsela) in maniera semplice. La crisi del credito é alla base di questo strano periodo che chiamiamo recessione. Ha origine a quanto si dice negli Stati Uniti, a causa principalmente dei fantomatici mutui sub-prime. Questi sono soldi prestati da intermediari senza scrupoli a famiglie palesemente insolvibili, in forma di mutui per la casa. Ciò ha permesso di accumulare enormi ricchezze tramite agli "edge fund", fondi ad altissimo rischio, ed altri esoterici strumenti derivati, rifilati ogni dove tramite gli istituti di credito internazionali, formando quelli che sono stati unanimemente definiti i "titoli tossici".

La faccenda è un po complicata, non sono un tecnico della materia e quindi non riesco a coglierne tutti gli aspetti, ma il sunto finale è sotto gli occhi di tutti. Una quantità incredibile di denaro si è semplicemente volatilizzata nel nulla, ed il cerino acceso non ha interessato solamente i poveracci che hanno perso la casa, ma ha invaso oramai tutta l'economia reale mondiale, con ripercussioni ben visibili in ogni attività economica.

Ho trovato in rete questo video molto suggestivo che spiega assai bene come si è svolta l'intera faccenda, purtroppo è in inglese, ma l'animazione è talmente esplicita che si avranno credo ben poche difficoltà a capire le basi del meccanismo. La morale che se ne ricava potrebbe semplicemente essere: anche i ricchi piangono.

Update: Il video è disponibile anche in alta definizione.

mercoledì 28 gennaio 2009

Facciamo il punto sugli inceneritori e la raccolta differenziata

Vorrei fare il punto del perché gli inceneritori sono una scelta che non è adatta per una corretta gestione industriale del rifiuto, a prescindere dal territorio in cui sono utilizzati. Non è una questione di orticello privato o di sindrome Nimby, è qualcosa di più organico e complesso da valutare nei suoi molteplici aspetti.

Considerazioni energetiche

Gli inceneritori si autosostengono energenticamente, poiché il potere calorifico dei rifiuti (CDR), se almeno superiore a 2000Kcal/Kg, come è il caso dei rifiuti urbani tal quali con essiccamento e modesta preselezione, è sufficiente per alimentarlo. Ciò non significa che non abbiano consumi energetici, il consumo di combustibile fossile immesso dall'esterno comunque esiste ed è limitato alle fasi di avvio e spegnimento, occorre infatti fornire una modesta quantità di gasolio o metano per portare a temperatura di esercizio gli impianti prima della immissione del rifiuto. Se non fossero preriscaldati e spenti con un combustibile convenzionale, potrebbero funzionare in transitorio al di fuori dei parametri previsti (con conseguente extra produzione fuori controllo di sostanze inquinanti immesse in atmosfera).

Tuttavia, l'energia netta che essi producono è molto scarsa, i dati CEWEP (associazione europea costruttori di inceneritori) affermano che il rendimento elettrico medio è attorno al 15%, pertanto la maggioranza dell'energia recuperata se ne va in calore e in perdite, assai poco recuperabili anche utilizzando il teleriscaldamento (che in estate manco serve). L'incremento di rendimento termodinamico degli ultimi modelli moderni a griglia mobile (la tecnologia più utilizzata) è compensata dalle maggiori perdite dovute alla necessità sempre più stringenti di rispettare le normative sui fumi, con filtri multi-stadio in uscita (filtri a manica, elettrostatici, a precipitazione). Pertanto, anche nei modernissimi impianti di ultimissima generazione è molto difficile arrivare a rendimenti elettrici superiori al 20%.

L'energia netta prodotta è positiva solo se si considera nullo il costo energetico della produzione del rifiuto da cui è ricavata, si ignora inoltre completamente l'energia per ricreare gli stessi elementi che si fanno sparire incenerendoli, rendendoli tra l'altro non recuperabili per sempre. Per avere un ordine di grandezza su quanto in realtà "sprecano" energia anziché produrne, si può fare riferimento a questo post.

Considerazioni economiche

Gli impianti sono generalmente ad alta intensità di capitale e basso impiego di manodopera. Economicamente sono per definizione in passivo e si sostengono grazie ai Cip6, in piena violazione delle direttive normative in materia, che impediscono l'erogazione dei contributi "ecologici" a fonti che non sono rinnovabili. I contributi saranno riconosciuti, grazie alla nostra ministra Prestigiacomo, anche per tutto il 2009, sono soldi dei cittadini, e sono tanti, prelevati direttamente dalla bolletta dell'Enel (voce A3 pari a circa il 7% dell'importo medio versato al gestore elettrico).

Gli impianti di incenerimento sono molto costosi, possono superare abbondantemente i cento milioni di euro per impianti di piccola/media taglia. Ciò comporta un costo medio in italia per unità di rifiuto smaltita sulla soglia dei 100 euro a tonnellata. Riferito ad altre soluzioni di smaltimento finale più economiche come le discariche questo comporta inevitabilmente tariffe più elevate per i cittadini, i quali sono tenuti con il passaggio dal regime di tassa (tarsu) a tariffa a coprire completamente i costi vivi del servizio.

L'inceneritore di Forlì aperto recentemente è costato oltre ottanta milioni di euro, per 120.000 tonn/anno di capacità, quello di Brescia 300 milioni di euro. Si stima che alla fine della loro vita utile il costo consultivo sarà comunque molto maggiore, come per ogni grande opera tecnica costruita in Italia. Una spesa a mio parere sproporzionata rispetto al beneficio ottenuto. Federico Valerio da una sua analisi comparata dei costi dell'incenerimento.

Possiamo quindi affermare senza rischio di smentita che dal punto di vista economico, se non fossero finanziati surrettiziamente dai cittadini, nessun imprenditore sarebbe così folle da realizzarne uno in prospettiva di vedersi rivalutare il suo capitale investito, se non sovvenzionato dallo stato, quindi a debito pubblico.

Considerazioni sanitarie

Gli inceneritori sono classificati come impianti insalubri di prima categoria, pertanto ad essi vanno rivolte particolari attenzioni sotto il profilo sanitario e di impatto sul territorio. Gli studi epidemiologici sui danni provocati dagli effluvi ci sono e sono anche preoccupanti, specialmente per l'esposizione agli inceneritori delle generazioni precedenti, in cui sistemi di filtraggio non erano nemmeno paragonabili a quelli odierni. Pur tuttavia, i limiti delle emissioni sono sempre stati costantemente aggiornati al ribasso, in quanto i processi intrinsechi di combustione generano inevitabilmente composti tossici, spesso la cui pericolosità è stata in passato largamente sottostimata. Una raccolta di studi epidemiologici significativa è stato eseguito dalla dottoressa Patrizia Gentilini di ISDE.

In tempi recenti si è riscontrato che alcune sostanze possono essere attive anche a concentrazioni bassissime o infinitesime. Un esempio eclatante é rappresentato dalle temibili diossine PCDF/PCDD, per cui oggi esiste una normativa che limita a pochi picogrammi su metrocubo la loro produzione. Il grosso problema di queste normative è proprio che sono relative alla concentrazione nel volume dei fumi prodotti anziché al valore assoluto accumulato.

Questo, per sostanze in "bioaccumulo" come sono le diossine, per le quali non esiste in natura un processo di disgregazione se non in tempi lunghissimi, significa avere limiti che saranno sempre insufficienti nel medio-lungo periodo. Se sostituisco un impianto vetusto con uno di capacità doppia, ma che presenta una concentrazione di inquinanti dimezzata, al termine dell'anno avrò la stessa quantità accumulata di sostanza nociva, anche se dimezzare la concentrazione significa ricadere nei limiti di legge.

Il problema principale delle sostanze a "bioaccumulo" è che tendono appunto a concentrarsi in maniera esponenziale salendo la catena alimentare, per cui a Brescia, ad esempio, la concentrazione di diossine nel latte e altri derivati può raggiungere valori molto superiori ai limiti di legge, anche se la concentrazione nell'aria e nei suoli sembra sotto controllo. In molti casi a dire il vero ciò non è dovuto esclusivamente agli inceneritori ma anche alle altre industrie chimiche impattanti sul territorio, come per il caso Caffaro, tuttavia il principio di accumulo rende gli inceneritori i principali imputati proprio per questo tipo di sostanze.

Ulteriori motivi di estrema pericolosità, solo di recente parzialmente compresi, sono dati dalla produzione di nanopolveri da combustione, esse possono penetrare in profondità durante la respirazione e causare effetti infiammatori al di la della intrinseca pericolosità chimica degli elementi costituenti, in quanto tipicamente composte da aggregati a scala nanometrica di metalli pesanti. Questi composti sono tipici delle combustioni e non esistono filtri per eliminarli neppure parzialmente, inoltre sono tanto più pericolosi quanto più alta è la temperatura di combustione (al contrario delle diossine, la cui temperatura di dissociazione di legame è attorno ai 950°). Le ricerche in questo campo sono piuttosto recenti e portate avanti da ricercatori come Stefano Montanari.

Nessuno inoltre è in grado di stabilire cosa succede se si immettono (magari per errore) nell'inceneritore sostanze che non erano state previste in fase di progetto, ecco ad esempio cosa succede se i rifiuti sono contaminati con un carico di iodio.

Considerazioni gestionali

Gli inceneritori sono processi industriali ad alta intensità energetica e di capitale, hanno flussi in ingresso di materiali ma anche flussi di uscita. Per ogni tonnellata di rifiuto immesso si generano infatti 3 tonnellate di fumi (combinati con ossigeno e azoto prelevati dall'aria), 300Kg di ceneri pesanti da inertizzare, classificate come rifiuti speciali non pericolosi ma la cui salubrità pone notevoli dubbi, più 30Kg di "polverino", ceneri volatili estremamente tossiche che necessitano di essere smaltite in discariche speciali molto costose, tipicamente depositi geologici di salgemma, per evitare contaminazioni di acquiferi e suoli.

In Italia vige la pazzesca pratica di utilizzare esclusivamente mezzi su gomma per trasportare i materiali da e verso gli inceneritori, con conseguenti costi gestionali maggiorati, consumi energetici per autotrasporto ed inutile inquinamento aggiuntivo. In paesi come la Germania, si preferisce ovviamente utilizzare il treno per il trasporto di questi materiali, il cui costo energetico e gestionale è molto inferiore. Avete presente i treni che partono dalla Campania per gli impianti tedeschi ? Tra l'altro, all'interno di questi impianti avviene una parziale differenziazione, recuperando materie prime seconde e bruciando solo la parte non recuperabile, al costo di 400 euro/tonnellata forse potevamo farlo anche noi!

Come possiamo evitare di usarli

Se non voglio utilizzare una attività il cui unico effetto è nascondere gli effetti di una malattia, posso prendere in considerazione l'idea di curare davvero la malattia. Il che significa adoperarsi innanzitutto per ridurre i rifiuti prodotti, poi recuperare quanto possibile, poi riciclare i materiali, infine utilizzare trattamenti a freddo come alternativa all'incenerimento, ad esempio il compostaggio industriale e il TMB. I trattamenti a freddo hanno necessità impiantistiche che costano una frazione rispetto ai trattamenti a caldo, migliore efficacia, con un inquinamento incomparabilmente minore. Purtroppo danno meno lavoro alle ditte costruttrici in appalto, che sulle grandi opere (meglio se inutili) traggono sostentamento economico.

Il residuale di questi processi a freddo è tipicamente materiale già inerte che può essere spesso riutilizzato in maniera intelligente, come avviene in centri tipo Vedelago, oppure stoccato in discariche convenzionali, che ora necessiteranno di assai meno requisiti rispetto a quelle destinate al conferimento del "tal quale". Se rimane ancora qualcosa occorre premere sull'industria affinché modifichi i suoi processi produttivi.

Se una cosa non è riusabile, riparabile, smontabile, separabile, compostabile, recuperabile, l'industria semplicemente non dovrebbe più produrla, punto!

Un tassello intermedio di tutto questo sistema è rappresentato dalla raccolta domiciliare spinta, meglio se Porta a Porta. Lo stato dovrebbe infatti distribuire equamente sulla collettività (sul cittadino) il costo del lavoro di separazione, in proporzione a quanto rifiuto ognuno di noi produce, questo perché è proprio il cittadino che ha la possibilità (e tutto l'interesse) di premere affinché ciò che acquista abbia i requisiti per ridurre all'origine questo lavoro purtroppo necessario, che deve pertanto essere inteso come un dovere civico. Mi sembra un atto minimo di civiltà e di equità sociale lavorare per la sostenibilità ambientale. Se lo fanno a Friburgo, non si capisce perché non possiamo farlo anche noi.

Chi pensa che la tutela ambientale abbia un costo, ha ragione, questo costo possiamo esternalizzarlo (cioè farlo pagare alla gente più disperata sotto forma di degrado ambientale) oppure possiamo tenerne conto e distribuirlo equamente, non si può però affermare che i costi della raccolta differenziata sono insostenibili, perché questo semplicemente non risponde al vero.

Foto: Inceneritore di Vienna, colorato per sembrare più tranquillizzante.
Approfondimenti: Inceneritori su Wikipedia

lunedì 26 gennaio 2009

Crollano i prezzi dei materiali di recupero, colpa della crisi

A causa della crisi sono crollati i prezzi dei materiali destinati al recupero. Nessuno li vuole, riciclare non è più economicamente vantaggioso. Le difficoltà in cui versa la raccolta differenziata in Italia si colgono da un comunicato stampa della Regione Toscana.

L'assessore all'Ambiente ha aperto un tavolo regionale (che brutta espressione!) con gli enti che si occupano di riciclaggio per cercare rimedi alla "generale difficoltà del sistema legata alla crisi dei consumi e al crollo dei costi delle materie prime". Dato che non si tratta solo di una questione locale, l'assessore vuole che la questione sia portata all'attenzione di un "tavolo nazionale".

Ora in Toscana non ci sono problemi per riciclare il vetro e l'alluminio. Però il prezzo della plastica di recupero è crollato del 70%: e se incassi solo quattro soldi dalla vendita, come fai a pagare le operazioni di raccolta e trasporto? La carta di recupero toscana veniva esportata, ma all'estero nessuno più la vuole. Al momento è "destinata a cartiere italiane". Notate: destinata a cartiere italiane. Non si dice "venduta". Messo ancora peggio, sempre in Toscana, il recupero del legno: è "in netta difficoltà".

Allora, dicevo, cosa bisogna fare? Buttare tutto in discarica o nell'inceneritore? No. Secondo me il problema dei rifiuti si risolve semplicemente non producendo rifiuti.

Quando acquistiamo un flacone di detersivo, paghiamo sia il contenuto (l'unica cosa che serve) sia il contenitore. E poi paghiamo di nuovo la bolletta dei rifiuti perché qualcuno ci porti via da casa quello stesso contenitore.

Ci avete mai pensato? E' un'autentica follia. Per fortuna che ci sono il vuoto a rendere e i prodotti alla spina.

Temo però che i prodotti alla spina non piacciano ai piani alti dei palazzi di governo. Lì, mi pare, si persegue il concetto che tutto fa Pil, e che le imprese possono guadagnare due volte producendo i contenitori inutili: prima vendendoli ai consumatori con qualcosa dentro, e poi facendosi pagare dai consumatori per portarli via quando sono vuoti. Ma questo è un altro paio di maniche.

Contenitori, confezioni e imballaggi assortiti probabilmente non sono del tutto eliminabili. In larga parte sì, però: e cominciamo ad arrivare fin lì. Ne trarranno beneficio sia l'ambiente sia le nostre tasche. I pochi rifiuti che non si può fare a meno di produrre, quelli sì che, secondo me, devono andare alla raccolta differenziata e al riciclaggio.

Non importa se dal punto di vista economico è più conveniente seppellirli da qualche parte o addirittura bruciarli (e in questo caso la convenienza, per chi gestisce gli inceneritori, sta nei famosi Cip6): tutto ciò che, non più utilizzato, viene avviato ad una nuova vita non impoverisce le risorse del pianeta.

Se ricicli carta e cartone, non tagli alberi. Se riusi le lattine, non estrai altro metallo dalle miniere, che non ne possono certo fornire una quantità infinita. L'ho già detto: la questione secondo me va posta così.

Fonte: Blogeko


mercoledì 14 gennaio 2009

Il ruolo delle società partecipate nei comuni

Voglio rilanciare questo illuminante post di Alessandro Ronchi sul ruolo delle società partecipate all'interno delle amministrazioni comunali. In tempi di crisi si sa che occorre sempre fare il conto con le risorse a disposizione, affidare ai privati parte dei processi gestionali di competenza comunale ha il vantaggio di liberare risorse da spendere per altri campi, come il sociale, la cultura, l'urbanistica, la sicurezza, la gestione del territorio, ma pone anche qualche problema.

Tali risorse liberate, ad esempio, non dovrebbero mai essere dirottate completamente e abdicare così all'indispensabile ruolo di "controllo", necessario per garantire una corretta pianificazione di mandato. Aziende ed enti a partecipazione pubblica, come Atr, ma soprattutto Hera SPA, obbediscono a contratti di servizio che talvolta sembrano essere più espressione diretta delle necessità dell'azienda stessa che del vincolo di fornire risposte reali alle richieste dei cittadini.

E' forse un caso infatti che, malgrado studi approfonditi come quelli di Alfonso Andretta, o l'esperienza di Forlimpopoli, ancora non si sia partiti nel pianificare l'estensione della raccolta domiciliare spinta anche sul nostro territorio ? Le preoccupazioni di tipo "finanziario" che modifiche nella gestione comportano, sono davvero reali oppure sono dettate esclusivamente da riflessi economici che vedono nella remunerazione del capitale l'unica strategia operativa perseguibile ?

Aziende come ATR, oppure SEAF a Forli, ed in generale aziende che operano nel ramo dei trasporti pubblici, saranno sempre e solo in passivo per definizione, i costi calmierati dei biglietti infatti occupano appena un terzo in media di quanto serve per ripianare il bilancio di esercizio, in questi casi affidare a privati la gestione ha un senso in quanto il recupero di efficienza potrebbe compensare in parte le spese per ampliare e migliorare il pubblico servizio. Paradossalmente, in questi contesti è più facile investire.

Il caso di Hera invece è assai diverso, la legge obbliga a riversare completamente ai cittadini l'intero costo di gestione, tramite il meccanismo della Tariffa (che non significa che si paga quello che si consuma, ma significa che il cittadino deve ripianare sempre e comunque in toto quanto l'ente spende). Hera quindi è una delle poche (forse l'unica) azienda partecipata che ha degli utili, e questo la pone necessariamente in una "linea grigia di confine" rispetto agli obiettivi pubblici dell'amministrazione.

Investire nel miglioramento del servizio ? SI! Ma a patto che i bilanci di Hera non ne soffrano... se si insisterà si proporrà "automaticamente" di aumentare le tariffe, così si disincentiva sul nascere qualsiasi operazione che non sia un "efficientamento" del sistema già consolidato. Sorpresi che il rifiuto trattato dal gestore sia sempre costantemente in aumento ?

Un corretto approccio è quello invece di farsi la seguente domanda: "Abbiamo le risorse per affrontare questo progetto ? Sapendo che fornisce un servizio migliore al cittadino e all'ambiente, ma al contempo riduce i margini di guadagno della società, conviene perseguirlo ugualmente ?"

Se rispondete di no, probabilmente sarete i prossimi candidati in occasione del rinnovo del C.d.A. di Hera.

sabato 15 novembre 2008

Il petrolio e la gioconda, piccola storia delle non rinnovabili

Supponete di conoscere un ladro compiacente che è disposto ad entrare al Louvre, a notte fonda, e rubare per voi la ... Gioconda di Leonardo da Vinci. Quanto potreste pagarlo ? Esiste un prezzo equo ? Essendo un oggetto così raro (anzi unico) pattuite che un prezzo equo per il ladro possa essere, diciamo, un milione di euro!

Supponete ora che poco prima di decidere di compiere il colpo salti fuori un fatto incredibile... Leonardo non aveva dipinto una sola gioconda, ma addirittura 10, e tutte originali!

L'incredibile fortuna per l'umanità, anche dal punto di vista del committente del furto è comunque un fatto non così drammatico, ora che questo bene non è più unico magari non varrà più così tanto, però potrò certamente permettermi di pagare il ladro una cifra assai inferiore. Allora, chiamate il ladro e gli dite: "signor ladro, ci sono ben 10 gioconde nel caveau del louvre, io adoro quel quadro e lo voglio assolutamente, però deve farmi uno sconticino".

Il ladro probabilmente risponderà: "Eh caro amico mandante, io dovrò comunque sostenere delle spese, è un lavoro duro, rischio la galera, ma cercherò di venirle incontro, facciamo centomila euro e non ne parliamo più." Così i due si accordano su un prezzo equo.

Il ladro arriva di soppiatto sulla soglia della camera climatizzata dove sono esposte le 10 gioconde, e scopre con sgomento che sette di queste sono state già rubate, pertanto ne restano solo altre tre!

Cosa fareste se voi foste il ladro ? Analizziamo le scelte possibili:
  1. Chiamo il mandante per denunciare la cosa, chiedendogli un congruo aumento della cifra pattuita dato che ora la Gioconda è ridiventata una merce piuttosto rara per l'intera umanità, pertanto vale molto di più. (1)
  2. Preoccupato dal tasso di esaurimento delle Gioconde, decido di rinunciare al furto, per non privare i posteri e le future generazione dal godere di questa meravigliosa opera d'arte, i miei figli un giorno mi ringrazieranno. (2)
  3. Rubo comunque una delle tre gioconde rimaste, al prezzo pattuito, tanto i futuri turisti potranno comunque visitare le altre due. (3)
La (1) la escluderei, dato che il mandante ha chiesto di rubare una sola copia, il prezzo era già stato pattuito, e non vuole certo rischiare che il mittente gli annulli la fatica e il rischio fin qui intrapreso solo per pretendere un ulteriore vantaggio monetario.

La (2) la escluderei, dato che il ladro non è un filantropo ed era comunque deciso a rubare in precedenza anche l'unica copia ritenuta disponibile, seppure per un prezzo molto maggiore.

La (3) é l'unica scelta rimasta, pertanto il ladro ruba la gioconda e la consegna al mandante. La settimana seguente il guardiano scopre che tutte le gioconde sono state rubate, ognuna ad un ora diversa, da altri ladri.

Pensiamo ora a cosa sta succedendo nel mondo del petrolio e delle altre materie prime non rinnovabili. L'economia imporrebbe che il valore di un bene sia misurato sommando tutti i costi che sono stati sostenuti per portare la risorsa dalla fonte (miniera, giacimento) al consumatore. In maniera grossolana possiamo intendere i costi come formati da X ore di lavoro per Y di stipendio, più Z di ammortamento macchinari, più W di bolletta energetica, più K per i diritti di competenza di tutti i vari trasformatori e intermediari fino al cliente finale. Fino a che qualcuno mi copre questi costi, io la risorsa la estraggo e incasso il guadagno.

La domanda a questo punto risulta: "Ho realmente pagato una risorsa fisica oppure ho pagato solo tutto il lavoro fatto per estrarla e trasportarla, come se la risorsa in se valesse intrinsecamente zero ?"

Fra un estrattore di risorse e un ladro, pur con i dovuti distinguo, non c'è in fondo un qualche nesso ? Quando il ladro ruba per commissione la risorsa per lui vale zero, quello che riceve è il compenso pattuito per il lavoro fatto, analogamente per chi estrae risorse naturali.

Cominciate a vedere la follia di una economia che calcola il valore dei beni non in base alla loro mera materialità e utilità ma esclusivamente in base all'incontro fra domanda ed offerta ? Cosa diamo realmente in cambio al pianeta, quando ne sfruttiamo le risorse non rinnovabili ? Lo stesso discorso vale anche per risorse rinnovabili ma sfruttate a ritmo superiore alla loro capacità di rigenerarsi, come la pesca e l'agricoltura.

Così come al ladro frega poco se domani forse non ci saranno più gioconde, al petroliere frega poco se domani non ci sarà più petrolio, fino a che ce ne sarà oggi ancora una goccia continuerà ad estrarlo e venderlo al migliore prezzo che riuscirà a spuntare sul mercato, al massimo se è particolarmente furbo ne accantonerà un po per rivenderlo in momenti migliori (comunque sottraendolo come risorsa naturale disponibile alla intera collettività).

Ora, non dovete affatto stupirvi di come il petrolio (così come le gioconde), malgrado si sia ridotto come disponibilità sul mercato, possa vedere il suo prezzo schizzare a 150$/b per poi crollare a 50$/b in pochi mesi. Qual'è il suo costo reale ? Perché è cresciuto tanto ? Solo speculazioni ?

Fino a che i committenti vogliono petrolio, qualcuno lo fornirà, ovviamente fino a che ce n'è, riducendo piuttosto i costi all'osso (ossia in primis non facendosi scrupoli se il metodo estrattivo è inquinante, dissennato, impattante sul territorio). In caso di crisi finanziaria ci saranno coloro che, pur di avere liquidità, potranno anche venderlo sotto costo nel breve periodo, pur di salvare la baracca.

Il vero problema di tutto questo è che l'economia non sembra in grado di funzionare in maniera logica quando un bene è non rinnovabile, scarta questo fatto "a priori", come se la crescita dovesse essere infinita e illimitata.

Se "sostenibilità" significa godere dei beni presenti senza impedire alle generazioni future di poterne usufruire, occorre un concetto di economia sociale e solidale completamente nuovo, capace di abbandonare il mito del PIL e dei beni insostenibili a buon mercato. All'analisi sulla convenienza economica delle fonti energetiche alternative, ad esempio, occorre sostituire al posto del prezzo attuale di mercato concetti come EROEI (energia ritornata per energia investita), utilizzando magari per stimare i reali costi metodi come LCA (costo dell'intero ciclo di vita), che tengono conto anche di tutti i costi normalmente esternalizzati, nonché i costi ambientali.

Economia ed Ecologia oggi fanno a pugni, è compito della politica cercare di riconciliarli in qualche modo.

venerdì 7 novembre 2008

Amadori, l'importante è crescere

Alla Amadori hanno la grossa grana dei dipendenti che stanno male. Gli impianti funzionano a ritmi accelerati rispetto a quello che sarebbe normale, e questo è stato dichiarato dagli operai in più occasioni, tra cui l'assemblea sindacale prima dell'estate.

Le strutture non sono probabilmente adeguate a sopportare una lavorazione così massiccia. Le fognature sono state rifatte, perchè individuate come una della cause della presenza di sostanze nocive nell'aria (non riuscivano a smaltire adeguatamente i reflui).

Non è bastato. I malori non sono cessati.

Ma cosa salta fuori adesso? Che Amadori ha in progetto un investimento da 50 milioni di euro per ampliare e rimodernare l'intero stabilimento di Cesena, costruendo un nuovo edificio su 3 piani per gli arrosti (10.569 mq) e un rendering (gestione industriale delle scorie) di 6600 mq, in uno stabile apposta (ipertecnologico) dove smaltire i residui della lavorazione e produrre farine proteiche.

Il rendering attuale è uno degli indiziati per quanto riguarda la contaminazione di sostanze nocive nell'aria. Nuova struttura di 13.800 mq per il taglio polli e lavorazione carni (quadruplicando quell oattuale), nuovo impianto di smaltimenti fognario... insomma un progetto industriale notevolissimo e un'incremento della produzione altrettanto massiccio.

Al comune Amadori recapita, in estate, un dossier riservato in cui condiziona l'investimento e forse la permanenza della ditta a Cesena, al non avere bastoni tra le ruote. Quindi all'approvazione integrale del piano presentato (ovviamente la frase in oggetto, che trovate qui, è meno diretta di come l'ho riportata, ma si presta a questa interpretazione...).


Nel prg del 2003 erano gia stati concessi alla ditta, notevoli permessi di costruzione. Nel dossier inoltre palesa fastidio per le esternazioni dell'Ausl sulla mancanza di cultura della ditta nella valutazione dei rischi e nella tutela della salute dei dipendenti. Stesse critiche contro i sindacati che avevano segnalato pubblicamente le mancanze del Gruppo Amadori nella tutela dei lavoratori.

A questo punto mi scappa una riflessione... forse anche banale...

La ditta ha negato ripetutamente i malori (170 nel 2007), arrivando a dare dei mitomani ai dipendenti. Da un paio d'anni trascina questa faccenda senza risolverla definitivamente:

  1. Non starà aspettando di avere l'autorizzazione ad ampliare come vuole lo stabilimento prima di spendere soldi per tutelare la salute dei lavoratori? (se ammodernasse gli impianti attuali, poi dovrebbe spendere nuovamente al momento dell'ampliamento).
  2. Non starà "usando" i malori dei dipendenti strumentalmente per fare pressione sul comune? (della serie: finchè non otteniamo quello che vogliamo non si sblocca la situazione).
  3. O forse semplicemente il dossier serve a dire: vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca. (Cioè, poche seccature sulla sicurezza e fateci investire a piacere)
  4. O ancora: forse Giordano Conti intende temporeggiare fino alle vicine elezioni comunali per sbolognare la patata bollente al successore, e magari Amadori è seccato per il ritardo?

Sono solo cogetture. Non ci sono prove documentali per affermare che queste siano le loro intenzioni. Ma allo stato dei fatti, leggendo simili notizie, si può prescindere dal porsi queste domande? Come spiegare altrimenti il prolungarsi di questa situazione, che sembra non avere fine, nè sbocchi? Poi ci si lamenti se si indicono commissioni secretate.

Ultima domanda: l'ampliamento e l'incremento produttivo cozzano con l'estrema precarietà dei dipendenti. Come spiega, Amadori, una percentuale di contratti stagionali altissima, con più di 1500 dipendenti su 2200 assunti in questo modo? Il pollo si mangia tutto l'anno. Il mercato evidentemente non va male, se no perchè investire: allora perchè assumere con contratti stagionali ? Perchè può e gli conviene, ecco la risposta.

Articolo preso e parzialmente adattato da fonte: Indymedia

martedì 21 ottobre 2008

20-20-20 L'italia dice NO

Come noto, l'Italia ha puntato i piedi in sede europea, trainando con se i paesi meno sviluppati, per contestare il famoso (famigerato) piano 20-20-20, che sarebbe in soldoni la necessità entro il 2020 di diminuire del 20% le emissioni, conseguendo il 20% come obiettivo di risparmio energetico e 20% di incremento delle energie rinnovabili. Il sig. B afferma che allo stato attuale il rapporto costi/benefici non è chiaro e il piano penalizzerebbe in maniera inaccettabile paesi come l'Italia molto forti sul lato manifatturiero, pertanto inevitabile divoratore di risorse.

Cerchiamo di ritornare tutti nell'alveo di un ragionamento corretto. A prescindere dall'area di pensiero nobile o illuminato di appartenenza, quello che mi preme stabilire è: il piano 20-20-20 è una sciocchezza oppure ha un qualche fondamento scientifico ?

E' pacifico che fenomeni come l'iper regolamentazione, una certa politica miope di incentivi, una tassazione non equilibrata, possa potenzialmente causare danni più grandi di quelli che sulla carta intenderebbe risolvere, però non dobbiamo nemmeno prenderci in giro fino a questo punto!

Intendo dire che non è possibile ogni volta utilizzare la legge come una coperta corta a seconda di chi si vuole riscaldare, quando nasce a tutela di qualche interesse viene sostenuta a spada tratta, quando solo rischia di lederne altri viene bistrattata all'inverosimile. Leggi del genere in materia ambientale, per quanto perfezionabili, hanno la caratteristica di ledere TUTTI gli interessi, perchè NESSUNO vuole realmente ridurre le proprie emissioni, così come nessuno vuole ridurre il PIL o peggio diminuire i consumi energetici (ad esso storicamente proporzionali).

Allora, il punto non è burocrazia si o burocrazia no, la riduzione delle emissioni è davvero indispensabile oppure, dato che siamo in recessione (se mai ne usciremo) è rimandabile ?

Pretendere di rinviare una decisione così cruciale solo per un mero conto della serva del rapporto costi/benefici, fra l'altro dettato da un problema congiunturale di crisi economica, mi sembra una stupidata colossale.

Occorre concentrarci sul capire se perseverando con lo sfruttamento attuale delle risorse andremo verso il disastro oppure no, perché se mai questo disastro arriverà, sappiate che quisquilie come la democrazia (e la burocrazia) passeranno completamente in secondo piano, sull'onda della devastante crisi sociale causata da un mondo non più in grado fisicamente di sostenerci tutti, agli attuali ritmi di crescita dei consumi. Il problema va anche al di la della crescita dei mari di qualche metro, per il quale basterebbe evacuare qualche centinaio di milioni di persone e costruire qualche milione di palafitte... il concetto è, siamo disposti a correre il rischio e i costi futuri di uno sconvolgimento climatico globale ?

Ridurre le emissioni, va fatto oppure no ? Oppure meglio difendere le nostre rendite finanziarie e spendere i nostri soldi sani in un mondo malato ? Secondo il mio parere ne vale la pena, siamo di fronte ad un immenso esperimento a scala globale dalle conseguenze incerte e dai rischi altissimi, in cambio di un bel po di carta che chiamiamo volgarmente soldi possiamo comprarci una assicurazione sul nostro futuro, e migliorare al contempo la salute dei cittadini.

lunedì 20 ottobre 2008

Il matrimonio di HERA non s'ha da fare

Poco se ne parla, ma i vertici di Hera hanno da poco ricevuto una delle loro più grandi sdentate, vedendosi naufragare i loro pomposi piani di fusione societaria che avrebbero visto l'influenza di Hera allargarsi ben al di la della regione Emilia Romagna. Il grande matrimonio fra la multiutility nostrana e IRIDE (piemontese) + ENIA (emiliana) non si farà. Anzi, oltre alla beffa il danno, dato che i due partner "strategici" pare abbiano stipulato un accordo fra di loro, lasciando Hera mazziata ed abbandonata.

Non è da oggi che da più parti del territorio cesenate e romagnolo si levano critiche e perplessità sul rapporto tra Hera e i Comuni che ne costituiscono la compagine sociale, ingabbiati nel doppio ruolo di controllori e controllati e incapaci pertanto di incidere concretamente sulle politiche aziendali. In questo clima di incertezza, Hera ha pensato bene di lanciarsi sull'alta finanza e cercare operatori in grado di sorreggere il proprio piano industriale, sempre più minacciato da amministrazioni riottose che "disturbano" con richieste fastidiose tipo il "porta a porta", o politiche idriche/energetiche più eque.

Il sindaco uscente Giordano Conti (ora lautamente pagato da Hera con un posto d'oro guadagnato a seguito dell'ottimo lavoro di tutela svolto), sarà sicuramente arrabbiato per l'accaduto, in varie occasioni lo si è sentito accalorarsi in contrasto con il sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, considerato a torto o a ragione come il principale responsabile della mancata fusione.

Riguardo ad Hera, forse non ci si rende conto che proprio questa sua "debacle" potrebbe rappresentare nella lunga distanza la sua fortuna. In periodi di crisi economica come quelli attuali la storia contemporanea ha dimostrato ampiamente che i primi a rimetterci sono e saranno proprio i giganti dai piedi di argilla, dalle dimensioni sproporzionate rispetto alle reali necessità della collettività e del territorio su cui operano.

Una Hera non artificialmente ingigantita dalla finanza, pur già oggi comunque ipertrofica, riuscirà a mantenere auspicabilmente la flessibilità necessaria per modificare alcune sue scelte strategiche rivelatasi sbagliate ed assecondare meglio le necessità dei cittadini. Tanto per parlare chiaro, la fusione di Hera ed il consolidamento del suo piano industriale avrebbe chiuso la porta completamente ed irrimediabilmente sia verso il ruolo di controllo delle "piccole" amministrazioni locali che riguardo qualsiasi possibilità di introdurre sviluppi politici virtuosi come la raccolta domiciliare dei rifiuti. Evidentemente Hera è convinta che l'aumento di capitale necessario per le fusioni sarà garantito senza grossi problemi dai continui rincari delle tariffe ai danni dei cittadini.

La recente crisi economica ha quasi dimezzato infatti il valore delle partecipazioni pubbliche in Hera; se a ciò aggiungiamo che, prima o poi, la liberalizzazione dei servizi giungerà con tutta la sua forza destabilizzatrice (nel 2011), mettendo in seria difficoltà chi si troverà a dover valutare le ipotesi di aumenti di capitale per rimanere sul mercato senza averne i mezzi, lo scenario è veramente preoccupante.

Di tutto questo nella stampa non si parla, a parte le continue lagnanze di coloro che hanno partecipato a questo gioco delle fusioni per scoprire di esserne rimasti esclusi sul più bello.

Fonte: Corriere Bologna

sabato 27 settembre 2008

Efficienza economica ed incenerimento dei rifiuti

Si sente spesso parlare del concetto secondo cui l'economia, grazie alla spinta competitiva, tenderà a massimizzare sempre e comunque l'efficienza di un sistema di produzione, in quanto se non lo facesse un "competitor" arriverebbe ben presto a creare lo stesso bene ad un prezzo inferiore, facendoti uscire dal mercato. In base a questa ipotesi, l'aumento della concorrenza dovrebbe essere in grado di produrre magicamente strategie via via migliori per creare lo stesso bene in forma più economica, quella che si chiama "innovazione di processo", da non confondere con l'innovazione di prodotto che mira alla sostituzione del bene con altri di caratteristiche superiori.

Chi nutre una fede cieca ed indissolubile verso questi principi economici capitalistici ne trae spunto per alimentare il proprio ottimismo di fronte alle gravi crisi che abbiamo di fronte, non importa quale problema avremo davanti, sguinzagliando il libero mercato esso si risolverà, e sempre, nella maniera più efficiente possibile. Finisce il petrolio ? La soluzione c'è già, sono i petrolieri ed i governi cattivi che non vogliono che si sappia, i nostri scienziati sono ovviamente pronti al nastro di partenza capaci di sfornare dal cilindro gli elementi del nostro futuro.

Siamo davvero sicuri che un sistema che tende alla massima efficienza locale della singola impresa sia sempre e comunque indirizzato a produrre il migliore fra i sistemi possibili globalmente ?

Prendiamo ad esempio il problema rifiuti, limitiamoci alla nicchia di mercato dell'imprenditore che decide di entrare nel business dello smaltimento. Esso si inserisce a pieno titolo nella "catena del valore", il suo orizzonte spaziale parte dall'approvvigionamento delle materie prime (rifiuti), passa per il trattamento degli stessi (supponiamo li incenerisca) e termina con la vendita del proprio prodotto, che sarebbe poi l'energia elettrica, nonché lo smaltimento delle proprie scorie (residui, ceneri).

Da un punto di vista termodinamico, sappiamo che l'incenerimento non è il sistema più efficiente per preservare l'energia globale immessa in tutta la filiera che va dall'estrazione mineraria fino allo smaltimento in discarica, riciclare ma soprattutto riusare sono molto ma molto meglio in termini energetici, però mettiamoci per una volta nei panni dell'imprenditore che entra nel "business" dell'incenerimento.

Come massimizzo, io imprenditore, la mia "efficienza" ? Attraverso tre semplici postulati.

  • Diminuendo il costo delle materie prime che mi occorrono, in base alla stima di produzione data dal mercato.
  • Diminuendo il tempo e il costo del mio processo produttivo di trasformazione per unità di prodotto.
  • Massimizzando il ricavo totale dovuto alla vendita del mio prodotto lavorato sul mercato.
Nel caso di un qualsiasi imprenditore che non bara e non detiene posizioni dominanti di monopolio, la legge della domanda e dell'offerta consente inevitabilmente di collocarsi in un punto di equilibrio, auspicabilmente superiore al "breakeven" (lavoro e non ci rimetto). Questo equilibrio è dettato sostanzialmente dalle dinamiche di mercato del settore in cui opero e dai vincoli della legislazione a cui sono soggetto, tutte e tre le voci sopra riportate ammettono pertanto un valore ottimale considerati questi vincoli.

Nel caso dell'imprenditore "inceneritorista", cosa succede ?

Tenderà a fare si che il costo delle materie prime sia il più basso possibile, addirittura negativo! Infatti, in questo caso si può addirittura essere pagati per "smaltire" le materie prime in ingresso (rifiuto).

Diminuirà il costo del processo, perseguendo a man bassa qualsiasi possibilità di accedere (anche impropriamente) a Certificati Verdi, CIP6, finanziamenti agevolati, tanti macchinari automatici e meno mano d'opera possibile.

Massimizzerà il ricavo rivendendo il prodotto lavorato (elettricità) al prezzo tutelato pari a ben tre volte il suo valore di mercato, con contratti decennali, producendo più elettricità che può.

Uniamo queste tre spinte, considerando l'inesauribilità della sete di energia elettrica (il mercato è disposto a comprarne indipendentemente dalla quantità prodotta), aggiungiamo il fatto che la materia prima non costa quasi niente, mettiamoci pure i finanziamenti pubblici a fondo perduto per gli investimenti in capitale immobilizzato......

Ma cristo santo, se me ne danno la possibilità vorrei costruire un inceneritore anche io!!!


Questa nicchia economica é quindi fuori dalle regole di un mercato normale, il punto di incontro fra domanda ed offerta non esiste, l'unica cosa che esiste è il vincolo di "smaltire solo fino alla quantità autorizzata", che dovrà pertanto essere la più alta possibile (vedi caso Brescia), da qui il desiderio di fare inceneritori sovradimensionati e sempre più grandi, cosa assai più facile se chi deve autorizzare e chi deve costruire è sovente la stessa entità (leggi Hera e politici locali dentro i consigli di amministrazione).

In questo esempio, il raggiungimento del massimo dell'efficienza economica locale, conduce ad un peggioramento della condizione economica globale, perché è evidente che se costruissimo tutti un inceneritore sotto casa avremmo problemi enormi:

  • Esaurimento rapido delle materie prime e delle risorse minerarie
  • Spese sanitarie ed inquinamento fuori controllo
  • Impossibilità di perseguire qualsiasi altra politica di tutela ambientale

In Germania, gli inceneritori sono pubblici, non generano energia elettrica, lo smaltimento costa molto, sono pianificati dallo stato e non dalle aziende che gestiscono il rifiuto.

Comincio a capire perché la Germania incenerisce molto più di noi ma ha al contempo una struttura di gestione industriale del rifiuto molto più attenta ed efficiente, specialmente riguardo alla raccolta differenziata, al punto che i tedeschi prevedono entro il 2020 di chiudere gran parte delle discariche di rifiuti urbani ed allargare la raccolta differenziata in tutti i centri urbani ben oltre il 50%.

Da noi rimangono i conflitti di interessi, anzi solo gli interessi.

venerdì 26 settembre 2008

The Crash Course

Chris Martenson ha realizzato un rapido corso di economia in 22 lezioni.

Ci spiega in un inglese semplice e diretto (e con molti grafici comprensibili) di come il sistema economico mondiale DEVE cambiare radicalmente il prima possibile per evitare il collasso e minimizzare i danni.

E’ un appello ragionato alla decrescita economica..

The Crash Course

martedì 23 settembre 2008

Il MIZ reagisce alla legge regionale sugli hobbisti

Ne abbiamo parlato qualche settimana fa in questo post. Sembra che Confesercenti e Confcommercio siano riuscite a convincere gli amministratori regionali a promuovere una proposta di legge mirante a regolamentare (ingabbiare) il settore dei mercatini hobbistici. Il sospetto che tutto ciò sia ad esclusivo vantaggio delle categorie da loro rappresentate e null'altro appare evidente, basta elencare anche solo sommariamente le nuove misure che sarebbero previste "a tutela" del settore:

  • Tesseramento obbligatorio dei venditori al costo di 200€/Anno
  • Limite di partecipazione a 10 eventi in 5 anni, con un tetto di massimo 5 eventi all'anno, significa che bruciando il bonus nei primi due anni nei prossimi tre si sta a casa !!
  • Obbligo di esporre il prezzo su ogni oggetto venduto
  • Divieto di condividere lo spazio di vendita con amici
  • Limite di 250€ sul prezzo di ogni oggetto venduto
  • Impossibilità di concessione a chi non ha i requisiti per aprire una attività commerciale
  • Pene e sanzioni amministrative corrispondenti a quelle per le attività commerciali
Leggi come questa possono potenzialmente provocare danni enormi ad una economia di tipo solidale che in periodi di crisi economica potrebbe rappresentare un "ancora di salvezza" per molte persone, specialmente meno abbienti. Per quale motivo non posso vendere le mie cianfrusaglie in maniera semplice, diretta ed onesta, anziché portarle a smaltire in un inceneritore ? Ne ha parlato abbondantemente l'associazione Aspo Italia qui e qui.

L’intento evidente della normativa appare quello di ricorrere alla “iper regolamentazione” di un settore dalla valenza non solo prettamente economica ma anche sociale ed ecologica, che dovrebbe pertanto essere tutelato per le sue azioni positive nei riguardi della tutela dell’ambiente e del riciclo dei matriali.

Tentare di assoggettare i mercati non professionali alle stesse regole che valgono per chi fa di mestiere questa attività (e quindi lo fa per sopravvivere) rischia di avere il classico effetto di buttare via l’acqua con il bambino, al solo scopo di risolvere un problema secondario, ovvero la potenziale presenza di operatori professionali “mascherati” da hobbisti che snaturano la naturale eticità del fenomeno creando concorrenza sleale.

A Londra, il mercatino di Portobello Road, è liberamente accessibile a tutti coloro che ne fanno richiesta registrandosi per l'uso di una piazzola, alla cifra di 20 pound (circa 25€), ci sono intere microeconomie di sussistenza che permettono a persone di ogni estrazione sociale di arrotondare vendendo le proprie cianfrusaglie, in tutta sicurezza, senza danneggiare l'economia convenzionale ed anzi fungendo da incredibile attrazione turistica.

Per questo ed altri motivi, il MIZ denuncia con forza le storture che una legge simile provocherebbe al settore dei mercatini, avanzando una proposta di revisione della legge regionale, tale da inserire almeno qualche barlume di buon senso in tutta questa vicenda legislativa dalla gestione tipicamente italiana.

lunedì 15 settembre 2008

Meeting Recoplastica, The day after

Il tanto atteso evento di presentazione del progetto franchising di Recoplastica finalmente è arrivato in porto. Il 13 settembre alle ore 10.30 l'ampia sala del Foro Boario di Moncalieri era già gremita di gente, si stimano siano arrivate più di 500 persone provenienti da ogni parte d'Italia. Il profilo dei partecipanti era davvero vario, dai rappresentanti dei più svariati gruppi ambientalisti (fra i quali anche il MIZ) ai giovani imprenditori fino ai semplici curiosi, desiderosi di capire se questo business può rappresentare davvero una buona idea oppure solo tempo perso all'inseguimento di una chimera.

Qual'era il business di cui si è parlato tanto ? Il fatto di distribuire sul territorio piccole micro-attività commerciali affiliate a Recoplastica che comprano i rifiuti direttamente dai cittadini. Ne avevamo già parlato qui e qui. Sembrerebbe l'uovo di colombo, ed in effetti l'aspettativa era davvero molto alta. Per uno strano effetto di moltiplicazione mediatica l'evento ha ricevuto una inaspettata risonanza, cogliendo molto probabilmente di sorpresa gli stessi esponenti di Recoplastica, inchiodati da un fuoco di fila interminabile di quesiti e domande, assai poche delle quali risolte con adeguate e risolutive risposte.

Il primo intervento introduttivo è stato a sorpresa quello dell'amico Prof.Ugo Bardi di Aspo Italia (qui il video), il quale con la sua proverbiale semplicità di linguaggio ha raccontato un fatto se vogliamo banale, comunque sconcertante per chi non si interessa di studi e ricerche sulle materie prime: "data la situazione attuale dei prezzi delle materie prime e la crisi energetica prossima ventura, non ci possiamo già fin d'ora permettere il lusso di buttare via niente". Il rifiuto rappresenta un valore che l'economia ha il compito di monetizzare per incentivarne il vero recupero, lo spreco di materiali non solo rappresenta un crimine termodinamico, ma una diseconomia che aspetta solamente qualcuno in grado di raccogliere la sfida, anche traendone un profitto. Compro 1L di acqua e 10gr di bottiglia ? Bene, bevo l'acqua ma poi la bottiglia non la butto... la rivendo!, secondo le quotazioni di mercato.

Tutto risolto allora ? Assolutamente no! Le aspettative di chi ha partecipato al convegno sono andate sostanzialmente deluse, ecco a mio parere il perchè, perdonatemi se sarò un po lungo e prolisso.

L'intervento chiave è stato quello di Roberto Gravinese, assessore eletto nella lista civica di S. Gillio "L'Italia che pensa", consigliere di Recoplastica, nonchè padre spirituale dell'iniziativa (e marito di una titolare di Recoplastica, A.Migliardi anche essa relatrice al meeting). Apparso in perfetto stile business rampante, sembrava appena uscito fresco da un corso di marketing di Pubblitalia. Avventuratosi in discorsi un po urlati, arte evidentemente affinata dalla militanza politica, forniva più l'impressione che stesse vendendo la propria azienda anzichè proporre un progetto. Questo ha insospettito a mio parere non poco la platea, la quale non era tanto interessata a valutare quanto brava fosse Recoplastica nel brevettare il proprio marchio o depositare in SIAE l'idea esclusiva di vendere i rifiuti (paventando addirittura guerriglie legali verso chiunque ci avesse provato senza essere loro affiliati), quanto avere risposta ad una semplice domanda: Quanto costa mettere su un ecopunto ? Si sostiene economicamente?

Capisco che un qualche tasso di retorica sia inevitabile nel proporre qualsiasi nuovo progetto, tuttavia calcare la bontà ambientale dell'iniziativa era assolutamente ridondante in quel contesto, compreso il patetico sottolineare di come il povero vecchietto possa integrare la sua misera pensione vendendo i rifiuti, il valutare quanto può risparmiare una famiglia media... Ma come, ci volevano convincere ad aprire una attività oppure a fare noi stessi da clienti? Insomma, bando alle ciance ecologiche, come ha funzionato il primo ecopunto ?

Ed ecco infatti la nota dolente, in effetti un reale ecopunto ancora non è mai nato, quello attivato a San Gillio non fa testo in quanto vende direttamente a Recoplastica (cioè a loro stessi), non può essere quindi indicativo ne delle reali spese di trasporto ne delle spese di gestione, men che meno dei ricavi di vendita verso le piattaforme CO.NA.I, CO.RE.PLA, etc., dato che vende a loro stessi. Assolutamente niente infatti è stato detto sulla struttura dei costi. Quello di Moncalieri inoltre é tuttora solo un punto informativo, una sorta di "show-room" dimostrativo, non ha infatti ancora mai trattato nemmeno un grammo di materiale. Siamo passati per curiosità a vederlo, (anche se chiuso), trattasi di uno stanzino abbastanza anonimo di 20 mq a malapena arredato, con una pressa colorata in bella mostra, e pochissimo spazio per accantonare alcunchè, una vetrina insomma.

Non ho apprezzato molto i continui riferimenti dei vari relatori ai "guasti" provocati a loro dire dall'introduzione del porta a porta nella zona, tipo il fenomeno della migrazione del rifiuto, oppure l'impossibilità di mangiare il pesce il giorno che uno vuole (dato che l'umido viene ritirato solo il Venerdì). Si insinua che la diffusione capillare degli ecopunto per la parte riciclabile siano strategici in un piano di ritorno ad un sistema tradizionale, a San Gillio infatti vige uno strano sistema chiamato "binario", che non è altro che un misto domiciliare/stradale più varie isole ecologiche distribuite di raccolta. A mio parere invece, se non applicato al porta a porta ed altre azioni per ridurre il rifiuto a monte, gli ecopunto potrebbero fungere anche da incentivo per la maggiore produzione del rifiuto stesso, della serie chi se ne importa dei prodotti alla spina, tanto il contenitore poi lo vendo!

Voglio essere cattivo fino in fondo, oltre a ricordarmi il "Presidente operaio" qualcosa mi fa pensare che Gravinese stia pensando di utilizzare il suo brevetto (ma è poi vero che una modalità di commercio può essere brevettata? Secondo me, no) a scopi politici. Per il centro-destra sarebbe la ricetta ideale per nascondere la soluzione del problemi legati allo smaltimento dei rifiuti: l'inziativa privata, che puntualmente risolve ogni cosa, tanto più se si prevede da parte del governo un riassetto dei consorzi obbligatori di riciclo. Credo che la fretta con cui è stato organizzato il meeting si spieghi con l'esigenza di ottenere una risonanza mediatica, ovvero pubblicitaria.

Al contrario, sono stati sviscerati a mio modo in maniera più che esauriente tutti i problemi burocratici ed autorizzativi che è necessario affrontare per avviare un ecopunto, come la necessità di compilare il formulario, il registro di carico/scarico, il MUD, ed altri blazelli vari da adempiere. Assolutamente da citare l'avvocato relatore esperto negli aspetti legali, il quale non aveva assolutamente inteso come funzionava il progetto, sostenendo la necessità di adottare per gli ecopunto una forma giuridica cooperativa perchè "sarebbe stato difficile per il singolo esercente inviare i rifiuti raccolti direttamente a Recoplastica!". Forse avrebbero dovuto avvisarlo che gli ecopunti nascono per essere indipendenti, dato che necessariamente dovranno inviare i rifiuti non alla casa madre ma ai vari consorzi locali dislocati sul territorio. Non capiva, continuava ad asserire che gli ecopunto in Sardegna sarebbero stati svantaggiati perchè non era pratico ed economico spedire i rifiuti fino a San Gillio senza essere in forma di cooperativa!!!

Sono comunque convinto che l'idea vada estesa ed affinata, magari con meno propaganda e superficialità ma con un occhio più attento alla fattibilità economica ed ai vantaggi energetici. Non posso nemmeno ipotizzare di persone che viaggino in auto per portare dieci scatolette di rifiuto, spendendo in benzina molto più del ricavato alla vendita, il problema dell'ottimizzazione dei trasporti è ancora tutto da chiarire, ma di questo parlerò in un prossimo post.

Update: Ugo Bardi ha appena espresso le sue considerazioni sugli ecopunto, in maniera assai più completa e metodica di come avrei potuto fare io, merita una attenta lettura

domenica 8 giugno 2008

Il vero valore energetico del denaro

Le disponibilità finanziarie altro non sono se non riserve matematiche, "potenziali aritmetici" virtuali, crediti di accesso all'uso delle risorse. Più hai soldi, più puoi (puoi, non devi) vivere il 2° principio della termodinamica ad alta velocità. Punto. Significa che hai più possibilità di vedere accadere trasformazioni irreversibili che spostano energia da un punto ad un altro.

Ora, pensare di risolvere qualsiasi problema, soprattutto in materie di carattere ambientale, spostando "cifre" equivale a sentirsi appagati contemplando la stanza da letto in ordine, evitando accuratamente di aprire armadi e cassettiere che, ahiloro, stanno sopportando pressioni da autoclave e rischiano di proiettare ogni sorta di oggetti da un momento all'altro.

Nell'immaginario collettivo alla fisica si è sostituita l'economia. Basti pensare alla bonifica di un sito inquinato, la notizia che rassicura non è che è stato bonificato, ma che sono stati stanziati i soldi per farlo. E' la fiducia cieca nel potere del denaro che ci attanaglia, è il pensare che il problema dei cambiamenti climatici si possa risolvere a suon di miliardi di investimenti anziché rifondando il modo stesso di vivere in equilibrio con la terra.

Alla fin fine, tutto diventa immateriale, impalpabile, fare la raccolta differenziata diventa andare nelle scuole a fare informazione, anzichè istituire sistemi che pongono i cittadini di fronte alle scelte operative (faccio ovviemante riferimento al metodo porta a porta).

Non se ne esce, abituati come siamo a mercificare e rendere tutto "comprabile", abbiamo disimparato che il denaro è uno strumento e non un fine. Come disse un tale molto saggio, se hai freddo e sei su una baita sperduta in montagna, con un milione di euro in banconote, puoi bruciarle e riscaldarti, scoprirai il vero valore energetico del denaro.

Liberamente tratto dal post: i bilanci economici non ci salveranno di Frank Galvano

lunedì 26 maggio 2008

Il vero problema è la crescita.. oppure no ?

Emma Marcegaglia afferma che il vero problema dell'italia è la crescita zero, lasciando intendere che chiunque non lo condivida non è un buon italiano.

E la Mafia ?
E i precari ?
E l'evasione fiscale ?
E l'ambiente e i rifiuti ?
E i conflitti di interesse ?
E la corruzione dei politici ?
E la carenza dell'edilizia pubblica ?
E la insicurezza e i morti sul lavoro ?
E il ritardo sullo sviluppo delle energie rinnovabili ?
E il finanziamento insufficiente alla ricerca scientifica ?
E la crisi irreversibile dell'approvvigionamento energetico mondiale ?

Certo, ha citato anche che occorre licenziare i fannulloni nella pubblica amministrazione ed invocato sgravi per le imprese, d'altronde dagli scranni di confindustria non ci si poteva aspettare molto altro. Tuttavia è singolare, sembra quasi una barzelletta dei colmi. Qual'è il colmo di Emma Marcegaglia ? Aver fatto la sua ricchezza producendo tubi, ma dei veri problemi dell'Italia (non delle tante aziende che rappresenta) non capirne quasi un tubo.

venerdì 23 maggio 2008

Nucleare per tutti, democrazia per nessuno

Quanto paventato da molti osservatori si è ovviamente avverato, l'Italia imbocca a passi spediti la strada del nucleare. Ovvio a tutti che tutta la retorica di questi giorni abbia come unica funzione quella di convincere l'opinione pubblica che si tratti di un affare, o peggio di un "bisogno" del paese, come si usa dire in questi giorni. Ciò è ovviamente falso, i bisogni del paese sono certamente altri, ma il pensiero dominante è la "crescita a tutti i costi", come afferma Emma Marcegaglia, nel totale disinteresse delle tematiche ambientali, e questo desiderio prettamente politico guida direttamente le scelte in materia energetica.

Che la crescita infinita sia di per se una balla infinita non è difficile capirlo, bastano piccole semplici considerazioni. Che poi questa debba passare anche per il nucleare francamente mi pare eccessivo, specialmente quando è risaputo come la scelta nucleare sia una delle più costose scelte che esistano, al punto che se ne parla nel mondo solamente ora, dopo decenni di stasi, spinti da un petrolio che vola alle stelle, mentre fino a poco tempo fa pochi l'avrebbero presa in considerazione. La necessità che ha il nucleare di investire con costi astronomici che un privato non potrebbe mai sostenere, unito ad un ritorno dell'investimento che dura fino a mezzo secolo, non impressionano certo i governi, abituati come sono a declinare il mantra dello sviluppo a discapito del debito pubblico. L'impressione globale è che, di fronte ad una crisi petrolifera irreversibile di livello planetario così estesa, non è oggi il caso di fare troppo gli skizzinosi sugli approvvigionamenti energetici (come dice Tullio Regge).

Noi moderni e poveri Golia, ci apprestiamo a scagliare le pietre più grandi che abbiamo, incuranti se esse siano realmente efficaci oppure no. Questo è il colpo di coda dell'economia industriale morente, la crescita col botto, tracanniamoci pure in un sol sorso la poca energia che ci è rimasta e festeggiamo, così arriveremo alla meta ebbri e soddisfatti. Peccato che la meta si chiama in realtà "decrescita", e sarebbe assai meglio prepararci prima, anziché ostinarci a cementificare il mondo. Cosa centra la democrazia in tutto questo ? E' evidente, scelte imposte dall'alto come quelle che stiamo vivendo oggi generano un circolo vizioso che mira ad escludere sistematicamente il "volgo" dal processo decisionale, realizzando quella che con un certo neologismo oserei chiamare "democrazia autoritaria".

Leggete al proposito questa lettera scritta da Federico Valerio, che intende mostrare quali sono le reali spinte che agiscono dietro a questa rinascita mondiale del nucleare, a discapito di un modo nuovo e democratico di produrre e gestire l'energia che ci serve, la microgenerazione distribuita.